IN FINE E IN MEZZO
La fotografia rappresenta una tastiera. Nello stesso modo in cui il pensiero, talvolta, non è seguito dalla velocità della mano nella scrittura a penna, così l? immagine è meno lenta ad essere trasmessa all? esterno, se a disposizione ho una macchina fotografica, una camera. Per quanto riguarda la fotografia, le immagini che mi interessano devono contenere qualcosa di riconoscibile, qualcosa che già si è affacciato alla mente in forma di immagine inafferrabile. Per materializzarla, o per approssimarla, l? occhio della camera va benissimo. Spesso la macchina riesce a vedere dove io posso soltanto intuire. Non so dire se la fotografia sia un fine o un mezzo; tuttavia, col tempo è inevitabile riconoscere che ci sono immagini che non potrebbero essere quadri dipinti, né quadri dipinti che avrebbero la stessa efficacia se venissero tradotti in un linguaggio fotografico. Posso dire che non ho mai potuto godere delle immagini fotografiche in quanto ?ricordi?; mi fa sentire turlupinata guardare una foto del viso di mia madre come era venti anni fa. E ancora peggio detesto le immagini di qualcuno che una volta era e non è più. Mi torna in mente un brano di un bel film di Alejandro Amenabar, ?The Others?, in cui un fantasma in forma di donna mostra foto di persone morte ?in posa? ad una donna.
Ho provato a capire se fosse più semplice e plausibile riprodurre una immagine dal reale contingente, o se una foto scattata ad un lavoro di pittura fosse altrettanto plausibile. Non lo so. Sono persuasa però che siano due realtà altrettanto tangibili,
ognuna a proprio modo, naturalmente.
La prima camera che ho avuto è stata una yashica fx3 interamente manuale. L? obiettivo era da 50 millimetri, formato che non riesco spesso ad utilizzare a causa della visuale poco ampia che consente. Preferisco usare un mini zoom che monto su una vecchia e magnificamente pesante nikon. Il formato di questo obiettivo è di circa 200 millimetri. L? ottica è di fabbricazione americana; pur non essendo estremamente luminosa, è sufficientemente elastica per favorire il mio bisogno naturale di distanza dalle cose. Non credo che farei mai spontaneamente foto a tema naturalistico! Ben lungi da me si trova il senso di scattare foto. Sto apprezzando la camera digitale, o, per essere più onesta, sto cominciando a comprenderne l?utilizzo. Ancora dubito ma intendo percorrere questa via. Ancora meglio di una Polaroid, e posso vedere subito e cancellare, e fare di nuovo.
Ancora fatico ad accettare di non sentire, in fase di stampa, quel tipico odore di acido acetico; ancora fatico a pensare di non poter intervenire ?se non in forma digitale-, sui piccoli errori irritanti che a volte indispettiscono la mia volontà in una immagine. Lavorare ad una foto e correggerne le parti che non assomigliano a cio che avrei voluto, non è una occupazione gradevole; o per meglio dire, non penso che si possa migliorare una foto. La foto deve essere esattamente come il fotografo l? ha pensata. Se ha bisogno di correzioni, di filtri che esaltino un particolare e cose simili, è meglio rifarla. La correzione fa sì che la foto diventi un altro, un doppio, una brutta copia, comunque un? altra immagine.
Anni fa concepivo la fotografia quasi unicamente per scattare ritratti alle persone;
rigorosi bianco e nero mettevano alla prova la mia capacità di dosare tempi di esposizione di carte strampalate, acquistate d? occasione, sotto l? ingranditore. Non posso, oggi, che rafforzare uno sciocco sospetto: le immagini che passano
attraverso l? occhio della camera sono condizionate dalla pittura vista negli anni. Anche se non soltanto da quella, naturalmente. La costruzione di una foto, l? angolo dove la luce fa il suo ingresso, come essa brucia il mondo che incontra, sono elementi fortemente dipendenti da quello che gli occhi hanno scelto di vedere nel tempo.
Quando rivedo immagini scattate venti anni fa o più, mi sorprende riconoscere un taglio, una forma di luce e ombra. Ancora prima della pittura, il cinema deve avere informato quel che sarebbe diventato il mio modo di vedere. Da bambina mi colpii terribilmente la vicenda di Cesare ne ?il gabinetto del dottor Caligari?; e un altro film che trovavo meraviglioso (nel senso letterale. Meraviglia, stupore) era ?Il posto delle fragole?. Qualcuno direbbe, un poco scherzando, un poco forse no, che ero noiosa fin da piccola. Può darsi. So comunque che erano queste le immagini che mi colpivano e mi turbavano, sovente. Un altro film che mi aveva turbata era ?Il processo di Giovanna d? Arco? di Dreyer. Negli anni a venire, avrei provato una commozione stupefatta davanti alla possibilità di analizzare con ben altri strumenti la questione. A vent? anni sfruttavo abbondantemente i corsi di storia del cinema dell ? accademia di Belle Arti; e nonostante il docente avesse una vera mania per il genere western, mi permise di imporre più o meno, un altro genere. Così, l? amore per il cinema espressionista ebbe modo di svilupparsi e divenni una assidua frequentatrice del Centro di Cinematografia Danese di Bologna. Una rompiscatole, fondamentalmente.
Ancora oggi mi accade, quando ho bisogno di bellezza, di riguardare lo splendore nero e brillante come lava gelida di ?Il Settimo sigillo? di Bergman, o la liquida commozione fatale di ?Vampyr?. Mi piacciono queste pellicole, luoghi eterni di plastica emozionata e condizionata. Ho un rapporto difficile con la fotografia. Mi turbano poche immagini.
Le posso contare. Qualcosa di Tina Modotti, Paul Strand, qualcosa di Robert Mapplethorpe, qualcosa di non so neppure chi. Nutro un amore contrastato e inorridito davanti all? opera di Joel Peter Witkin; trovo straordinarie e ferocemente carnali le sue composizioni, le nature morte che racconta. Credo che attualmente sia il genere di fotografia che appaga maggiormente la mia esigenza visiva.
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